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Franchin, Glenda. "L' arte del volto. Per un'antropologia dell'immagine", Università Cattolica del Sacro Cuore, XXI ciclo, a.a. 2007/08, Milano, [http://hdl.handle.net/10280/628].

Titolo: L' arte del volto. Per un'antropologia dell'immagine
Autore/i: FRANCHIN, GLENDA
Tutor: PETROSINO, SILVANO
Coordinatore: COLOMBO, FAUSTO
Lingua: ITA
Abstract in italiano della tesi: Il presente lavoro di tesi si propone come uno studio sullo statuto dell’immagine e in particolare dell’immagine del volto. L’ipotesi da cui si muove è che per comprendere pienamente la natura di un’immagine sia necessario approfondire l’elemento antropologico in essa contenuto, rintracciando al di là delle manifestazioni contingenti di ogni immagine specifica l’interazione strutturale che essa intrattiene con lo sguardo. L’immagine non è il risultato di un procedimento passivo dell’occhio del soggetto, che posto di fronte al reale si limita a reagire alla luce e a produrre il riflesso dell’oggetto: l’immagine è risposta all’avanzare del reale di uno sguardo. Ogni immagine è antropologica perché si dà secondo la misura del soggetto che la istituisce, cioè in relazione all’esperienza dell’individuo che la guarda o che la produce. Il presente studio tenta, quindi, di collocarsi in una posizione più originaria rispetto alle numerose questioni che hanno dominato il panorama speculativo del secondo Novecento a proposito della natura dell’immagine: il rapporto con il referente, la presunta sostituzione dell’immagine alla realtà, il dominio del regime visivo rispetto ad altri sistemi di significazione e così via. Si tratta di questioni della massima rilevanza, ma la convinzione che anima il presente lavoro è che al di là dei mutamenti – pur radicali – del darsi dell’immagine e della sua presenza nel corso dell’evoluzione della cultura si possa rintracciare una struttura fenomenologica del suo darsi in relazione allo sguardo. L’oggetto preferenziale che si è scelto per individuare tale struttura è il volto e in particolare l’immagine del volto, il ritratto. Il ritratto individua e traccia un luogo storico-teorico fondamentale per ripensare alla natura della rappresentazione, dell’opera d’arte e dello sguardo artistico come possibilità di accesso a una forma di reale e di verità dell’immagine di cui sarà necessario specificare i caratteri. L’analisi si apre con l’indicazione e la discussione del quadro fenomenologico di riferimento dell’intero lavoro, riproblematizzando le conclusioni del Concilio Niceno II e giungendo ad individuare la necessità di ripensare il concetto di rappresentazione. Tale ripensamento viene condotto sulla base dei testi di quattro autori, Jean-Luc Nancy, Regis Debray, Michel Dufrenne, Georges Didi-Huberman per giungere a una definizione della rappresentazione come re-presentazione dell’oggetto mediante l’immagine. Tale teoria conduce ad individuare la struttura propria di ogni immagine in una dinamica mai conclusa tra apertura e chiusura, tra caos e forma, tra infinita possibilità e definizione (capitolo primo). Il lavoro prosegue mettendo a fuoco il proprio oggetto specifico – l’immagine del volto – a partire da uno schema interpretativo «classico», il paradigma fisiognomico, mostrando come esso rappresenti la costante tentazione di misurare l’innumerabile, di costringere, classificare e fissare il mutevole per eccellenza, l’individualità che nel volto si esprime. La fisiognomica è una pratica dello sguardo declinata secondo la misura dell’appropriazione, un’utopia del controllo esatto sul modo d’essere dell’alterità (capitolo secondo). Il passo successivo sarà, quindi, quello di individuare una pratica del volto che non cerchi di costringerlo nelle maglie dell’idolo (cioè della staticità, della chiusura senza scampo della pietra muta): tale pratica può essere rintracciata nel ritratto, ovvero nello sguardo artistico che si indirizza sul volto. L’arte è esperienza dell’apertura, ovvero un agire che procede in direzione dell’assoluto altro delle possibilità del reale (Jean-Luc Nancy, Jacques Lacan); perciò contiene in essa la capacità di generare e ospitare un’immagine – del volto, ma non soltanto – in cui la soglia tra aperto (attraversamento da parte dell’alterità) e chiuso (darsi secondo una forma determinata) possa mantenersi senza cedere all’una o all’altra dimensione. L’arte è in grado di liberarsi dall’idolo, cioè da un’immagine su cui lo sguardo può posarsi godendo di una privilegiata condizione di quiete, riposando nell’illusoria convinzione di avere espunto dal campo visivo ogni elemento non controllabile e, soprattutto, capace di perturbare l’occhio osservante (capitolo terzo). Tali affermazioni vengono approfondite e messe alla prova grazie allo studio e alla frequentazione di una collezione di opere e artisti per lo più riconducibili temporalmente alla seconda metà del Novecento, a partire da Francis Bacon a cui viene dedicata la parte conclusiva del capitolo terzo. Il quarto e ultimo capitolo in cui vengono raccolti i materiali artistici analizzati è organizzato in cinque aree: estetica post-umanistica, rielaborazioni digitali del volto, morte e ritratto, volto e figurazione, volto e limiti della visibilità. Il lavoro si chiude con una riconsiderazione critica delle tesi esposte mediante il richiamo a Lévinas e alla sua posizione nei confronti dell’arte, giungendo ad affermare che l’immagine dell’altro nella forma del ritratto manifesti una pratica dell’alterità assimilabile al concetto greco di ποίησις.
Abstract in inglese: If human body represents the border of the self as regards the external world and the other people, human face is the area of our body in which we can find the mark of our individuality. No other area of our body is as much suitable to mark out our individuality and give us social distinctiveness. With its permanent expressiveness and its ability to show infinitesimal changes, human face is essential to save the individual from the undifferentiated and to preserve human uniqueness. Face has meaning and sense, but its signification process can’t be closed. It goes beyond face itself, given that face is an area of configuration of a sense which bases itself on a mode which can be called “mid-say”: it leaves something unsaid, keeps on saying the same things but always halfway, reveals that something is hidden and makes this evident. Our face is a limited area with an unlimited spread (apertura, distensione) which can’t be eliminated - dynamism of opening and closing.
Data di discussione: 26-giu-2009
URI: http://hdl.handle.net/10280/628
È visualizzato nelle collezioni:CORSO DI DOTTORATO IN CULTURE DELLA COMUNICAZIONE
FACOLTA' DI SCIENZE LINGUISTICHE E LETTERATURE STRANIERE

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